Si sta diffondendo un pensiero unico sul digitale molto problematico, che va di pari passo con un indebolimento della qualità formativa.
Uno dei rischi più grandi della rivoluzione digitale è la “macchinizzazione della società”, il sostituire uomini con macchine e considerare che il digitale sia la soluzione di tutti i problemi o l’unico luogo dove creare le opportunità.
Il tema è dunque ibridare (e non sostituire) l’uomo con la macchina e trovare nuove armonie relazionali. Facciamo fare alle macchine le cose più faticose e pericolose, oppure quelle che richiedono continua ripetitività alienante, ipervelocità o super-precisione e lasciamo all’uomo la sintesi e l’intuizione. E lasciamo quindi all’uomo le attività propriamente umane:empatia, creatività, sensibilità sociale, raccontare storie, umorismo, costruire relazioni e guidare le persone.
Ciò implica potenziare le competenze soft, le cosiddette humanities, tanto bistrattate nell’epoca della tecnica: capacità di concettualizzare e astrarre, pensiero critico, saper fare le domande giuste (più che saper dare le risposte corrette), riuscire a risolvere problemi mai incontrati, sapere quando rinunciare alla regola e far valere l’eccezione. Un importante aspetto dell’approccio umanista su questo tema è la centralità del senso del limite, è l’accettare che non tutto è spiegabile, dominabile, riparabile, trasformabile. Si tratta di una attenzione del sacro non inteso necessariamente come qualcosa di codificato dalle religioni ma come qualcosa che ci trascende e in qualche modo ci determina.